A proposito di “Pane e libertà”

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Lo scorso 1° maggio la Rai ha riproposto la fiction “Pane e libertà” dedicata alla vita di Giuseppe Di Vittorio, trasmessa per la prima volta da Rai1 il 15-16 marzo 2009, con la regia di Alberto Negrin, Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista e le musiche di Ennio Morricone. Eppure, non è sembrata una replica. Tutto ciò dipende, oltre che dalla qualità del prodotto televisivo, dall’attualità di Giuseppe Di Vittorio che risente anche della percezione della questione lavoro nell’ultimo decennio. Inevitabilmente la visione della fiction porta a riflettere sul fenomeno Di Vittorio, la sua eccezionalità che ben si presta al racconto cinematografico, nel lungo viaggio dalle cafonerie di Cerignola al vertice del sindacato mondiale. Un racconto subito reso credibile dalla trama storica che ripropone i tratti biografici essenziali, con integrazioni narrative sempre funzionali all’idea di fondo del riscatto individuale e collettivo per affermare la dignità del lavoro. Un esempio: i lutti che segnano la formazione civile del giovane Peppino sono forse spettacolarizzati nella rappresentazione della morte del padre Michele che cade sfinito per rincorrere i cavalli sotto la pioggia e quella del giovane amico Ambrogio picchiato selvaggiamente dal massaro. Il padre non morì nel fondo del padrone latifondista, che era oltretutto un marchese e non un barone, ma qualche mese dopo a causa delle fatiche derivanti dal vano tentativo di salvare i cavalli durante l’alluvione. L’amico Ambrogio trovò la morte non per una bieca ritorsione del massaro, ma colpito da un proiettile della polizia durante uno sciopero bracciantile. Eppure, queste licenze dalla realtà biografica ci dicono qualcosa in più sul mondo del giovane Peppino e sulle storie dimenticate del lavoro contadino, fatte di baroni, massari e cafonerie, sull’umanità disperata del latifondo dove si muore per un pezzo di pane e una goccia d’olio. L’infanzia di Giulavoro seppe Di Vittorio è l’infanzia anche del movimento operaio e contadino, con una perfetta simmetria biografica. Di Vittorio nasce a Cerignola l’11 agosto 1892, il partito socialista a Genova quattro giorni dopo. Del resto, la difficoltà maggiore era quella di riassumere i tanti passaggi con una credibilità complessiva non riducibile all’accostamento di tante verità. Nella narrazione televisiva vi è una parte “western” rivendicata dal regista Negrin che descrive le lotte sociali con qualche ridondanza stilistica nell’accentuare il profilo dello scontro sociale senza regole e una parte “melodrammatica” stroncata da Gabriella Gallozzi sulle pagine de “l’Unità” nel 2009.
Mentre l’azione e il melodramma ben si prestano alla rappresentazione cinematografica, fornendo ritmo e continuità emozionale, il pensiero sindacale e la riflessione politica sono passaggi biografici difficili da raccontare. Basti pensare al passaggio dal socialismo al comunismo e alle posizioni di Giuseppe Di Vittorio all’interno del mondo comunista. All’uscita della fiction, Antonio Carioti rilevava l’aggiunta di un dissidio inventato con Togliatti intorno alla svolta del 1929 sul “socialfascismo” (Di Vittorio, La fiction cancella il suo sì alla grande guerra, in “Corriere della Sera” del 16 marzo 2009), nell’ambito di un giudizio molto equilibrato, calibrato sulla specificità del prodotto televisivo.