Per una teoria critica del lavoro

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Sommario: 1. Breve storia del lavoro. 2. La svolta protestante. 3. La benedizione del lavoro. 4. Il lavoro liquido. 5. Il feticismo del lavoro. 6. Ritorno all’ozio.

1. Breve storia del lavoro

In questo scritto vorrei affrontare il tema del lavoro da un punto di vista storico-critico. Affrontare cioè il lavoro non tanto dal lato concettuale ma mostrare come certe pratiche culturali si siano organizzate storicamente per produrre un’idea di verità come quella della “glorificazione del lavoro”1. In età premoderna il lavoro (labor) si caratterizzava ed era concepito nel suo significato etimologico, come fatica e dannazione. L’uomo era costretto a lavorare per sopravvivere. La natura era matrigna e le si doveva strappare, con sacrifico e dolore, il cibo. Ma in cuor suo l’individuo aborriva il lavoro. Egli viveva questa fatica come un’ingiustizia, una condanna alla quale sfuggiva non appena era possibile. Per gli aristocratici Greci e Romani occorrevano gli schiavi, e tutto ciò che non era contemplativo, ma doveva essere svolto con le mani, indicava una bassa appartenenza sociale. I guerrieri, che erano considerati i migliori, i nobili, preferivano conquistare le terre e le proprietà altrui con il furto e la violenza piuttosto che piegarsi a lavorare nei campi. L’unico lavoro ammesso era quello del fabbro perché forgiava le spade e le armi per combattere. C’è da dire poi che in Grecia, come indica Vernant2, non c’è neanche un termine per indicare il lavoro. Non è sempre stato necessario lavorare per vivere, a meno che per lavoro non si indichi genericamente qualsiasi attività dell’umano, ma allora vi possono rientrare tutte quelle attività che abbisognano di una certa quantità di energia (ergon) per raggiungere il cibo. Come puntualizza la storica francese Claude Mossé, tra il lavoro dell’artigiano e il lavoro del servo non c’era per i Greci una reale differenza: “occorre distinguere la mentalità antica da una certa mentalità moderna che volentieri porrebbe l’artigiano indipendente al di sopra del salariato. Fra l’artigiano, che vende egli stesso i prodotti che ha fabbricato, e l’operaio, che dà la sua forza lavoro, non c’era reale differenza per gli antichi. Entrambi lavorano per soddisfare i bisogni altrui e non i propri; dipendono da altri per la loro sussistenza; pertanto non sono più liberi”3. Anche il medioevo è caratterizzato da nobili e guerrieri che preferivano vivere annoiandosi in un castello piuttosto che lavorare4. E i contadini del medioevo, secondo la descrizione che ne dà Engels5 , lavoravano quanto bastava alla sopravvivenza e non si impegnavano oltre misura nel lavoro. Sulla base degli studi di Weber6, i borghesi stessi, prima della rivoluzione industriale, lavoravano poche ore al giorno. Questa concezione negativa del lavoro si estenderà anche nel Rinascimento. Benché nelle città sorgessero i commerci, e i borghesi si arricchissero con i traffici, il lavoro sarà inteso sempre come mezzo e mai come un fine della propria esistenza. I soldi servivano a vivere una vita piacevole. La Chiesa, da un lato ammoniva coloro i quali accumulavano denaro utilizzandolo per l’usura, dall’altra spingeva i ricchi a spenderlo per l’arte e a pagare le indulgenze che arricchivano la chiesa stessa. La società rinascimentale è insomma una società che ricerca il piacere e aborrisce il lavoro.