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1. Quando finalmente (non lo trovavo da anni) ho avuto tra le mani il romanzo di Ottiero Ottieri (scritto tra il 1955-1957 e pubblicato nel 1959) sapevo di leggere un classico della letteratura industriale del novecento, ma non pensavo francamente che fosse ancora così attuale – quasi una cronaca tratta dai quotidiani – e, al contempo, così preciso nel mettere a nudo le ragioni profonde di un incontro mancato. Come si sa, il racconto si svolge in forma di un diario di lavoro tenuto da uno psicologo assegnato all’ufficio del personale di una sede meridionale di una importante fabbrica settentrionale, molto avveniristica, decisa ad intraprendere una politica di sviluppo nella provincia di Napoli (anche se non è detto, si tratta della Olivetti di Pozzuoli dove lo stesso Ottieri lavorò dal 1955 al 1956). Il problema principale dell’io narrante sono “le assunzioni”, vissute per gli aspetti delle modalità di selezione, del rapporto tra domanda e offerta, delle politiche sociali, dell’impatto su cultura e costumi locali, insomma con uno sguardo a 360°. Il romanzo è tutto qui: l’incontro/scontro tra la modernissima cultura di un uomo d’industria – portatore dei valori dell’organizzazione scientifica del lavoro, del merito (valutato attraverso la “psicotecnica”), della costruzione di identità professionali che forgiano un uomo nuovo, di un destino produttivo che può abbracciare comunità molteplici e concentriche, che dalla fabbrica si estendono alla famiglia, al paese, al territorio – e l’antichissima cultura di una comunità meridionale ormai in declino, ma ancora coesa, testardamente attaccata a valori e miti preindustriali, ad affetti e pregiudizi, dai quali riemerge continuamente l’eterna difficoltà di plasmare l’essere umano rendendolo un ingranaggio tecnico-or-ganizzativo. Nel diario non c’è “la soluzione”; piuttosto la progressiva consapevolezza delle mille sfaccettature del problema nonché delle tante soluzioni, ricche di potenzialità e sempre in bilico tra i suggerimenti della scienza organizzativa e quelli della capacità relazionale, quest’ultima tributaria di una sensibilità umana che deve attingere oltre il fine economico. Ma l’equilibrio tra tecniche organizzative e intuito relazionale – suggerisce la voce narrante – deve fondarsi sulla necessità oggettiva di far funzionare la fabbrica, assumendo i migliori. Sembra un’ideologia, di quelle fatte a posta per mistificare e sedurre gli ingenui; ma lo scrittore mostra di crederci davvero e imbastisce i drammi umani, da cui sempre la letteratura nasce, di questa “fede” nel riscatto del lavoro attraverso una nuova etica costruita nella fabbrica e per la fabbrica, calata in un contesto di donne e uomini concreti, fieri ma anche minacciosi, orgogliosi ma attanagliati da paure ataviche e solitudini vecchie e nuove.