Silvana Sciarra e Gino Giugni: un libro e una recensione tempestivi

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1. Le cento pagine (105 con indice e bibliografia) con cui Silvana Sciarra ricorda e rimarca la sua appartenenza alla comunità dei giuslavoristi formatasi nel continuo confronto con le “idee” geniali di Gino Giugni1, sono un dono di cui dobbiamo esserle grati. Nonostante il dono sia rituale o, in qualche modo, prevedibile: a poco più di dieci anni dal giorno in cui Gino – superati gli ottant’anni – ci lasciò orfani della sua presenza terrena e a cinquanta dall’“idea per il lavoro” che lo ha consegnato al mito ancor prima che alla storia, lo Statuto dei lavoratori.
Nei contenuti il libro presenta una struttura particolare. Si presenta come una breve antologia di scritti giugniani, molto selezionati e riprodotti nei brani ritenuti più significativi, aventi ad oggetto vari temi: analisi storiche prodromiche alle riforme del lavoro, la tutela della professionalità dei lavoratori, la libertà sindacale, la contrattazione aziendale, il conflitto, la concertazione sociale, lo sciopero nei servizi essenziali. Sono pochi testi rispetto all’ampia saggistica del Maestro, ma straordinari, per stile e contenuti. Rileggendoli si sono riaccese in me tutte le passioni giovanili che mi hanno spinto a scegliere questo mestiere particolare che è “il giuslavorista”: uno specialista del lavoro più che del diritto in quanto tale, che ha il singolare compito di ricordare, con misura e fermezza, a tanti altri specialisti (al giurista in primis,
ma anche al sociologo, all’economista, allo storico, al politologo come al politico) i limiti di ogni approccio troppo settoriale e autoreferenziale e l’assoluta necessità dell’interdisciplinarità. È questo un tratto delle idee di Giugni che siamo abituati ad ascrivere al piano “metodologico” o “epistemologico”: quindi squisitamente teorico. Però voglio dire sin da subito che invece, dopo aver letto questo libro, mi pare abbia ragione Silvana Sciarra: la radice di quel metodo sta in una dimensione interiore anzitutto emotiva o sentimentale.
Giugni diceva “il cuore mi batte per le classi deboli” (p. XLIX): e Silvana – evocando “un socialismo deamicisiano” (che io in verità faccio fatica ad associare allo sguardo caldo, ma disincantato con cui Gino ascoltava gli interlocutori)2 – chiosa: “questa affermazione va ben oltre la ‘dottrina della compassione sociale’, appresa studiando Sinzheimer e Kahn-Freund”, perché permea “le sue visioni del diritto del lavoro…via via adattate a realtà in movimento, nell’intento di esplicitare forme di tutela del contraente debole sempre più flessibili e non per questo meno efficaci” (ibid.). L’efficacia delle tutele dei lavoratori, appunto, perseguita al di là degli involucri formali (ma non a prescindere da essi): è questo che rende inevitabilmente insufficiente anche il più sofisticato degli approcci ipertecnici e stucchevoli i virtuosismi specialistici. E che richiede sempre uno sguardo aperto e pronto a cogliere i dinamismi della realtà piuttosto che i perfezionismi delle dottrine. Con questi sviluppi anch’io riconosco, oltre al cuore, la grande intelligenza politica del geniale studioso.