I Works di Trevisan: tra non-scelte di lavoro e regole a custodia dell’anima

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1. Di Vitaliano Trevisan avevo già recensito un testo teatrale magistralmente diretto e interpretato da Toni Servillo (Il lavoro rende liberi, in questa rivista, n. 2/2005), ignorando naturalmente i burrascosi rapporti tra l’autore e il grande attore mio conterraneo. Di questi rapporti ho appreso leggendo il nuovo romanzo di Trevisan, Works (Einaudi, 2016, pp. 651), una sorta di autobiografia incentrata sul nomadismo lavorativo dell’autore, dove fa capolino qua e là la sua vera vocazione, il suo “mestiere” elettivo, cioè lo scrittore di racconti, romanzi e testi teatrali, che lo portano, tra le tante esperienze, all’incontro/ scontro con una star come Servillo. La vicenda culminerà in una sgradevole damnatio reciproca (v. pp. 492-502), nient’affatto rara tra chi svolge attività lavorative caratterizzate in egual misura da creatività e da narcisismi all’ennesima potenza. Ma non sono queste peculiarità del lavoro artistico che mi hanno indotto a riparlare nella nostra rubrica delle fatiche letterarie di Trevisan. Ho trovato invece questo suo ultimo “romanzo-non-romanzo” una riuscitissima prova volta ad elevare a dignità letteraria un’esperienza lavorativa che si pone molto al di fuori delle classiche epopee novecentesche sul lavoro come valore sociale, culturale e politico (alcune recensite anche in questa rivista: v. Donnarumma all’assalto, nel n. 2/2013, Metello, nel n. 2/2007; La chiave a stella, nel n. 1/2005; La dismissione, nel n. 1/2003).

Insomma un romanzo sui “lavori” mentre persino la parola lavoro è culturalmente in crisi: “figlia di un momento storico senza bussola, essa rimbalza sulle nostre bocche come farebbe lo sporadico frammento di un ricordo dentro una generale amnesia. Sentiamo che aveva un senso, che rappresentava lavoro e… letteratura molto di più di ciò che oggi noi le attribuiamo. Forse percepiamo perfino un vago sentore di origini preziose, e intuiamo un brillare lontano. Ma è solo l’eco di un discorso andato. Forse un giorno, richiudendo l’ombrello dopo la lunga pioggia, ne riannoderemo fra le pozzanghere il senso” (MASSINI, Lavoro, il Mulino, 2016, pp. 130-131 di una collana dedicata alle “parole controtempo”). Proprio i giuslavoristi si affannano oggi alla ricerca di quel “senso” perduto anche dal “diritto che dal lavoro ha preso il nome” (Romagnoli). Qualcuno quel senso perduto lo chiama “idea”, qualcun altro “paradigma”: ma la sostanza cambia poco, attenendo al rapporto tra le regulae iuris e la morfologia che il lavoro va assumendo in una realtà soggetta a rapidissimi mutamenti. Trevisan con Works ci aiuta a scrutare questa realtà parlandoci del proprio nomadismo lavorativo da un punto di vista che ha poco o nulla di giuridico (e anche di meramente sociologico), ma che, a volte sorprendentemente, illumina di nuova luce problemi fin troppo familiari al giuslavorismo in crisi di identità.[…]