“Quo usque tandem…?”: politica, giudici e realtà nel dibattito sul licenziamento dei pubblici dipendenti

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1. Riscontrare un certo tasso di incertezza e instabilità nella giurisprudenza sulle intricate vicende della contrattualizzazione del lavoro pubblico è comprensibile; si potrebbe finanche dire fisiologico, per certi versi. A partire ormai dal 2001, dal tentativo fallito di compilare un vero testo unico dell’impiego pubblico in pratica, il percorso dell’unificazione normativa “pubblico/privato” si è smarrito, andando a scomporsi in una rete sempre più intricata di filoni riformisti; i quali, direttamente e indirettamente, hanno reso vago e residuale il pur limpido impianto di principio di cui all’art. 2 dello stesso d.lgs. n. 165 del 2001. Norme settoriali; riforme generali del lavoro privato da cui quello pubblico rimaneva escluso; accordi sindacali nostalgici; ibride neo-riforme; la cartacea retorica dell’anticorruzione: l’ordinamento non solo lavoristico, nelle sue molteplici componenti, ha ormai marcato separatezza piuttosto che integrazione delle discipline sul rapporto di lavoro. E ciò non senza anomalie di sistema, specie se si guarda proprio all’area delle tutele verso il licenziamento.

2. Avvisaglie di una resistenza quasi genetica – “interna” allo statuto storico del lavoro pubblico – a un’estensione integrale della disciplina privatistica in tema di licenziamenti si erano osservate, per vero, già nel pieno del processo di realizzazione della riforma avviata con la delega n. 421 del 1992. Affrontate non senza ambiguità e ritrosie nelle prime tornate di contrattazione collettiva, opinioni le vicende del recesso dei dirigenti hanno rivelato l’esistenza di un codice
delle tutele del lavoratore pubblico del tutto impermeabile al sistema legale protettivo previsto dal codice civile e dalle norme sul rapporto di lavoro nell’impresa privata. O, meglio e più correttamente, si è palesata un’evidente permeabilità opportunistica: l’esistenza di una prospettiva tendente a massimizzare le garanzie della stabilità occupazionale proprie di un regime di tutela reale. Prospettiva significativamente avallata dalle Corti superiori; non solo, spesso, senza alcuna distinzione tra le diverse figure professionali operanti nella pubblica amministrazione ma, in più, con dovizia di argomentazioni costituzionalmente orientate a spiegarne l’essenzialità, specificamente per le posizioni dirigenziali, in ragione del balancing power pubblicistico discendente dal principio di separazione “politica/amministrazione”. Vale a dire, in estrema sintesi, che si è andato consolidando l’assioma della tutela reintegratoria necessitata dai rischi di una deriva gestionale politica, cioè, in quanto tale, parziale e tendenzialmente ritorsivo-discriminatoria. Il tutto, quindi, al fine principale di spiegare l’inapplicabilità alla dirigenza pubblica anzitutto della recedibilità ad nutum e finanche di tutele meramente obbligatorie, sul pacifico presupposto – ex art. 51 d.lgs. n. […]