Sorry, sono tanti i responsabili

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1. Pochi giorni fa ho visto in un cinema della mia città l’ultimo film di Ken Loach: Sorry we missed you. Gli spettatori, numerosi, avevano un’età media intorno ai 60 anni. Al termine dello spettacolo, la sala si è svuotata in fretta nel più assordante dei silenzi. Anch’io, come se fossi stato in debito di ossigeno, desideravo soltanto riprendere a respirare. La visione di un docufilm che fa parlare con ritmo incalzante la nuda realtà, senza mediazioni né manipolazioni, aveva tolto il fiato a tutti. Tutti erano pensosi. Ma, più che
sconvolti, parevano avviliti. E ciò perché la micro-storia di densa drammaticità che avevano visto li riguardava in qualche modo. Chissà quanti di loro erano da un pezzo assidui utilizzatori dell’e-commerce; ma ignoravano che dietro le quinte succedesse quel che avevano visto; e non tanto per insensibilità o superficialità quanto piuttosto perché è entrato nel costume quotidiano servirsene. Quando hanno saputo, si sono indignati. 

2. Il titolo del film non è che la riproduzione del messaggio usualmente lasciato nella buca delle lettere dai corrieri inglesi quando non trovano nessuno nella casa dove consegnare la merce: grosso modo significa “scusate, non ci siamo trovati”. Quella del corriere, per l’appunto, è la professione che il quarantenne Ricky decide di intraprendere dopo un’esperienza di minijob (dall’idraulico al muratore, al giardiniere). Per poter iniziare la nuova attività, che gli prospettano redditizia, vende il veicolo col quale Abby, la moglie legata a un centro di servizi sociali con un contratto “a zero ore”, si reca nelle abitazioni di anziani fuori di testa e di disabili di cui è la badante. Col denaro ricavato dalla vendita compra un furgoncino per le consegne a domicilio. Consegne che effettua come driver freelance in base ad un contratto che gli permette di lavorare (come scandisce il boss durante la trattativa precontrattuale) non già “per”, bensì “con” la ditta di spedizioni: “Tu vieni a bordo, sei con noi”. Come dire: anche tu fai impresa. Il lavoro però si rivela subito massacrante. Non procura soddisfazione alcuna. Dà ossessione; punto e basta. Credeva di divenire padrone di se stesso. Viceversa, si rende conto di essere ancora lo schiavo che era: schiavo del bisogno di sopravvivere. Il suo è un lavoro dove ogni secondo trascorso nel caotico traffico cittadino può essere sofferenza o pericolo e ogni minuto di ritardo si paga. Dove è indispensabile tenersi a portata di mano una bottiglia di plastica in cui orinare per non perdere tempo. Dove non c’è nulla di garantito e qualsiasi incidente è a carico della vittima (a Ricky una banda di teppisti ruba gli oggetti che trasporta e spacca il tablet che ne controlla la tempistica). Inevitabilmente, gli effetti dello stress ricadono sui rapporti con la moglie e i figli adolescenti. Una svelta undicenne che fa la pipì a letto perché non riesce a reggere la crescente nevrosi che guasta il clima familiare e un turbato quattordicenne che marina la scuola perché prevede che il diploma non gli eviterà di condividere il destino di un perdente come il padre. “Che cosa ci stiamo facendo?”, mormora Ricky rivolgendosi ad Abby quando il film si avvicina all’angosciante finale senza concedere spazio alla speranza che la situazione migliorerà.