La proposta di direttiva UE sui salari minimi adeguati – Italia

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Di seguito si pubblicano le opinioni di alcuni studiosi europei del Diritto del lavoro che, dopo aver ricordato il contenuto della proposta di direttiva dell’Unione sui salari minimi adeguati dell’ottobre 2020, analizzeranno gli effetti della proposta, dopo la sua eventuale approvazione, nei rispettivi ordinamenti nazionali. I sistemi giuridici presi in considerazione sono quelli di Germania, Italia, Francia e Polonia, esaminati, rispettivamente, da Maximilian Fuchs, Emanuele Menegatti, Thomas Pasquier e Barbara Surdykowska e Łukasz Pisarczyk. La scelta di questi ordinamenti non è casuale. L’attenzione è stata indirizzata a un ordinamento che prevede da lungo tempo una legislazione sul salario minimo (Francia), ad uno che presenta una legislazione in materia molto più recente (Germania), ad un sistema caratterizzato da una tradizione di lungo corso della contrattazione collettiva quale autorità salariale (Italia) ed a quello del più importante degli Stati membri dell’Europa centrale, che soprattutto in passato ha adoperato i livelli salariali come strumento di dumping sociale (Polonia). L’iniziativa editoriale è stata organizzata in collaborazione con l’Italian labour law e-journal, rivista con la quale è stata condivisa la scelta dei contributi e alla quale è destinata la versione in lingua inglese dei medesimi.

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Italia*

Sommario: 1. Introduzione. 2. I principali obblighi inclusi nella proposta di direttiva. 3. Il prevedibile (limitato) impatto della proposta di direttiva sull’ordinamento italiano. 4. Conclusioni.

1. Introduzione

La proposta di direttiva della Commissione in tema di salari adeguati1 si va a collocare in un quadro europeo molto variegato, sia dal punto di vista dei meccanismi di fissazione dei minimi salariali che dei loro livelli2. Entro tale contesto, l’obiettivo principale è quello di garantire condizioni di vita e di lavoro dignitose, favorite da un ampio accesso a salari minimi adeguati (art. 1.1). Al progresso sociale si dovrebbe, poi, idealmente affiancare anche quello economico, agevolato da un level playing field, dove la competizione è basata su produttività e innovazione e non più sul wage dumping.
Scopo del presente contributo è quello di valutare il potenziale impatto che la proposta della Commissione potrebbe avere sull’ordinamento italiano. Non prima, però, di aver illustrato brevemente le principali azioni messe in campo dalla direttiva, destinate ad avere una qualche rilevanza per il nostro ordinamento. La proposta di direttiva persegue gli illustrati obiettivi muovendosi soprattutto su due versanti. Una prima linea di intervento riguarda direttamente la misura dei minimi salariali. Ai sensi delle disposizioni incluse al capo II (artt. 5-8) i paesi membri sono chiamati ad introdurre criteri chiari e stabili per fissare, aggiornare e valutare l’adeguatezza della misura del salario minimo legale3, seguendo le proprie prassi nazionali di determinazione dei minimi e coinvolgendo le parti sociali. Si tratta di obblighi che non gravano, tuttavia, su tutti i paesi membri. Sono destinati soltanto ai 21 Paesi dove è presente un salario minimo legale, vale a dire “stabilito dalla legge o da altre disposizioni giuridiche vincolanti” (articolo 3). Pertanto, non hanno nessun rilievo per l’Italia, così come per gli altri 5 Paesi europei dove le retribuzioni sono fissate esclusivamente mediante contratto collettivo (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia). Evidentemente, la scelta sottostante è quella di non interferire sulle modalità e sui criteri di determinazione dei minimi e quindi sulla loro misura, così da rispettare l’autonomia delle parti sociali4.